Come ogni mattina sono pronta, vestita di tutto punto e con la mia ventiquattrore firmata davanti alla porta quando sento squillare il telefono di casa. Indecisa se rispondere o meno, visti i tanti appuntamenti che mi aspettano a lavoro, mi lancio al quarto squillo sul telefono così insistente. Dall’altra parte della cornetta mi risponde una voce maschile mai sentita. Si presenta come l’aiutante di un notaio che mi vuole incontrare il prima possibile per comunicarmi una cosa molto importante. Al telefono non può dirmi nulla di più e così ci mettiamo d’accordo per incontrarci all’ora di pranzo in un piccolo ristorante vicino al mio ufficio. Quando chiudo la comunicazione rimango per un attimo a pensare di cosa si possa trattare, ma non mi viene in mente proprio niente e così, mettendo da parte ogni pensiero, mi avvio di corsa per strada, cercando di recuperare il mio ritardo sulla tabella di marcia. Da cinque anni ogni giorno faccio sempre le stesse cose, e questa è la vita che mi sono da sempre aspettata, soprattutto dopo tutto l’impegno messo durante gli anni universitari e gli ottimi voti presi fino ad ottenere la laurea con lode. Per ora non si è mai affacciata neanche l’idea di mettere su famiglia o avere figli che corrono per casa, tanto è il mio desiderio di fare carriera e diventare qualcuno nel mio ambiente. Poco tempo per uscire con gli amici o per avere una relazione seria, questo è il programma che ho per i prossimi anni e poi si vedrà. Non dover pensare ad altre persone mi ha permesso di fare strada da subito nell’azienda dove ho cominciato come semplice stagista. Lavorando giorno e notte al termine del periodo di prova sono subito stata confermata e dopo cinque anni, eccomi qui, con il mio abbigliamento serio e sempre in ordine, pronta a una giornata di riunioni e grandi decisioni nel mondo pubblicitario.
Tutto quello che arriva dall’esterno mi infastidisce, come la telefonata di questa mattina, che ha spezzato per un attimo l’incantesimo di una vita perfetta e scandita in ogni singolo momento. Manca poco meno di un quarto d’ora all’appuntamento con lo strano personaggio che ho sentito al telefono stamattina e una curiosità mai provata prima in questi ultimi anni, mi porta a lasciare il lavoro a metà per farmi trovare già al ristorante prima ancora dell’orario prestabilito. Per la seconda volta in una giornata mi sento a disagio per queste emozioni che stanno prendendo il sopravvento sulla quotidianità. Il mio interlocutore arriva in perfetto orario: è un uomo magro e altissimo, in giacca e cravatta e con un porta documenti sotto il braccio. Dopo pochi convenevoli ci sediamo a un tavolo dove tira fuori subito una manciata di fogli che a quanto pare devo firmare. Firmare io? Da quando è arrivato avrà scandito si e no due parole e quando comincia a parlare cominciano a brillargli gli occhi, come non stesse aspettando di fare altro. Per prima cosa mi anticipa che si tratta di una eredità che potrò leggere solo più avanti e che avrò la possibilità di accettare o meno. Mi accorgo di avere gli occhi stretti come se fossero due punti interrogativi e così, l’aiutante del notaio prende una grande boccata d’aria e prosegue spiegandomi che si tratta dell’eredità di un mio zio alla lontana, che ricordo anche solo vagamente, che mi ha lasciato un piccolo hotel a gestione familiare in montagna. Potrò però accettare solo dopo aver soggiornato il prossimo fine settimana nell’hotel. Mi alzo di scatto dalla sedia, sgranando gli occhi e con una risata soffocata, mentre gli dico che è una pazzia e che rinuncio prima ancora di andare. Mi accorgo di aver alzato la voce solo quando l’uomo in giacca e cravatta mi invita a sedermi, abbassando lui per prima il tono della sua voce. Mentre mi siedo, arrossendo per una scenata che poco mi appartiene, mi mostra delle foto. Le prendo in mano. Sono tutte di una bambina in mezzo alla neve con dietro un Hotel, che presuppongo si tratti di questo in questione. Guardando bene, mi riconosco: sono io a quattordici, quindici anni, con un sorriso che parte dagli occhi. Non ricordo di aver sorriso più così da quando i miei genitori sono morti, qualche anno dopo quella fotografia. In un attimo mi ritornano alla mente i ricordi di quegli anni, di quel piccolo albergo e di quello zio acquisito che ci ospitava ogni anni per le vacanze di Natale. Ricordo la felicità di quelle giornate passate in mezzo alle montagne, sulle ginocchia di mio padre mentre parlavano tutti insieme davanti al grande camino acceso. Un brivido mi sale sulla schiena e mi abbandono all’idea di passare tre giorni in montagna, tornando indietro nel tempo, con il desiderio di rivivere la felicità di una famiglia che ora non c’è più. Alla vigilia della mia partenza, mentre preparo le valigie con tutto il mio armamentario firmato adatto alle basse temperature, comincio ad avere ricordi più precisi di quelle vacanze. Oltre a noi c’era sempre anche un ragazzo più o meno della mia età, non ricordo però il suo nome né chi fosse esattamente e ora la curiosità di vedere se troverò anche lui si fa sempre più forte. Era stato il mio primo amore ai tempi della scuola e dopo la morte dei miei genitori ci siamo completamente persi di vista, non avendo tutti i sistemi di comunicazione che ci sono al giorno d’oggi. Ricordo di aver pensato a lui per moltissimo tempo fino a quando, ho scordato tutto.
Dopo quattro ore di treno sono già immersa nello scenario montano e appena scesa dal mio vagone comincio a sentire il vento che mi punge il viso e mi accarezza le mani in una fredda morsa. Mentre mi guardo intorno incrocio lo sguardo di un uomo, vestito sportivo e con dei grossi scarponi da montagna ai piedi. Come in un video mandato a velocità accelerata, mi passano davanti agli occhi tutte le giornate passate insieme a lui, a correre sui prati innevati o a giocare a nascondino dentro al grande hotel. Ricordo anche che davamo sempre una mano a mio zio con gli ospiti e che ci eravamo promessi di aprire un albergo tutto nostro una volta cresciuti. Questo ricordo mi fa sorridere e senza distogliere lo sguardo dal suo mi avvicino con grande difficoltà, scivolando con i tacchi alti sul pavimento ghiacciato. La scena deve essere particolarmente divertente, tanto che Vittorio – di punto in bianco mi ritorna in mente anche il suo nome – senza dirmi una parola, mi prende in braccio facendo cadere a terra la mia valigia, ridendo fragorosamente. Presa all’improvviso, mi aggrappo al suo collo e continuiamo tutti e due a ridere come bambini. Usciti fuori dalla vecchia ferrovia mi mette finalmente a terra, mentre un bambino ci ha riportato la valigia tutta bagnata dal ghiaccio. Non mi sentivo così felice e leggera da mesi, forse anni. Uscire da quel treno mi ha alleggerito d’improvviso da tutta la carica negativa di una vita passata dentro schemi rigidi e un lavoro troppo presente nella mia vita. Mi guardo intorno e vedo montagne, neve e qualche casa sparsa qui e la a dare colore a questo scenario candido e soffice. Chiudo gli occhi per respirare appieno questo bellissimo scenario, in silenzio, quando sentiamo ripartire il treno che ripasserà da queste parti solo tra due giorni, quando dovrò tornare in città. “Anna, mi ricordo di te così bene e ti sembrerà assurdo, ma averti qui ora mi riporta indietro nel passato, quasi come fosse ieri”. Sorrido perché anche per me è la stessa cosa, e pensare che fino a ieri non ricordavo più niente di questi luoghi e delle persone che ci vivono, Vittorio compreso. Saliamo sul suo fuoristrada, tutto infangato, e comincia il nostro piccolo viaggio fino all’hotel. Durante il tragitto per la prima volta da secoli non ho per niente voglia di parlare del mio lavoro, ma vorrei solo ricordare i tempi passati della nostra infanzia, così cominciamo a ricordare i giochi che facevamo insieme e al fatto che anno dopo anno, quando ci ritrovavamo dopo mesi passati lontani, era come se non ci fossimo mai lasciati. Quando poi abbiamo cominciato a ricordare anche i miei genitori e il famoso zio, mi sono commossa fino a sentir cadere sulle guance alcune lacrime salate e fredde come la neve. “Ricordi che volevamo aprire un nostro Hotel da grandi? Magari è arrivato veramente quel momento”. Vittorio era orfano dalla nascita e mio zio lo aveva praticamente adottato, portandolo a vivere con lui nell’albergo e facendolo lavorare li da sempre. Il testamento diceva infatti che i possedimenti di mio zio venivano lasciati a me e a lui in egual misura e sarebbe rimasto a chi avrebbe portato avanti il suo lavoro rimanendo a vivere quassù, tra le sue montagne. “Ricordo benissimo i nostri sogni, mi sono tornati in mente tutti insieme, come un flashback, ma dubito che potrà essere il mio futuro, probabilmente dopo questi due giorni sarai il padrone unico di tutto questo”. Non posso immaginarmi senza i miei tacchi, che a vedere ora sono pieni di fango e tutti rovinati. Anche se forse potrei cominciare a farci l’idea, a mettere da parte tutto questo bell’apparire in cambio di sentimenti così forti e unici che solo quello che fa parte della nostra vita passata può dare. Da questa ultima mia frase, Vittorio si è spento e non ha più detto una parola fino a quando è apparsa davanti a noi la piccola stradina sterrata che porta all’hotel, in fondo alla salita e che già si intravede tra gli alberi ora completamente innevati. Questo scenario mi stringe il cuore e mi manca quasi il respiro man mano che ci avviciniamo. Ad aspettarci sulla porta di ingresso c’è tutto il personale scalpitante per il mio arrivo. Prima ancora di fermare definitivamente la macchina, un anziano signore mi apre la portiera porgendomi la mano per aiutarmi a scendere: “Non è proprio l’abbigliamento adatto piccola Anna, ma ti ricordo sempre così nel giorno del tuo arrivo”. Guardandolo bene mi ricordo di lui, il cuoco dell’albergo che aveva sempre un biscotto da darmi quando scendevo in cucina. Ora ha tante rughe in più, ma i suoi occhi dolci non sono cambiati neanche un po’ in tutti questi anni. Tenendomi per mano comincia a presentarmi due ragazze che non conosco e che lavorano alla reception, rivedo poi suoi figlio che era molto piccolo l’ultima volta che sono stata tra questi scenari così surreali per me. Ora si occupa della sala, e coordina i camerieri che al momento non sono ancora arrivati. Lo rivedo piccolo, con i suoi capelli rossi sempre arruffati, mentre correva su e giù per le scale mentre il padre cercava invano di richiamarlo all’ordine. Riguardo tutti, come se fossero dentro a un quadro in attesa di essere esposto. Rimango senza parole e quando il vento si alza, facendomi entrare il freddo fin dentro le ossa, cominciamo a entrare in casa alla spicciolata. Rimango fuori per ammirare ancora un po’ i posti che tanto amavo da piccola, rimanendo rinchiusi dentro di me per anni, quasi fossero luoghi incantati e inesistenti, vivi solo nei miei sogni. Prima di entrare mi giro e vedo Vittorio fermo davanti alla macchina, mentre mi fissa con lo sguardo spento. Rimaniamo a fissarci senza dire nulla per qualche momento fino a che lui si avvicina: “Ti ho aspettato per anni, fino a quando tuo zio mi disse che i tuoi genitori erano morti e che non saresti più venuta qui. Sono rimasto chiuso nella mia stanza per giorni, fino a quando ho giurato con tutto me stesso che prima o poi ti avrei riportato su queste montagne. Quando tuo zio poi si è ammalato, ha voluto fare testamento mettendo me come unico erede. Quando è morto, ho chiamato il notaio, devolvendo a te una metà dell’hotel, con la postilla che sarebbe stato tuo solo se fossi rimasta qui, con me”. Non ho trovato le parole per rispondere, mi sono sentita presa in giro, allo stesso tempo onorata da questo gesto così forte, ricordo ancora quando ci giurammo amore eterno, l’amore di due ragazzini che oggi sono di nuovo qui l’uno davanti all’altra, con le mani strette insieme e il nuovo desiderio di rimanere così per sempre, a portare avanti il sogno di una vita, messo da parte in un cassetto dimenticato per troppo tempo e riaperto solo ora.
Eva Forte